lunedì 28 maggio 2007

Stato nazionale e globalizzazione, una nuova geografia del potere

di Giuliano Battiston, da "Liberazione" di domenica 27 maggio 2007
Intervista a Saskia Sassen docente di Sociologia all'Università di Chicago e alla London School of Economics
Professoressa di Sociologia presso l'Università di Chicago, dove dirige il Transnationalism project, visiting professor alla London School of Economics, editorialista per i giornali New York Times, International Herald Tribune, Le Monde Diplomatique, Die Zeit, Vanguardia e Clarin , Saskia Sassen sembra aver trasformato la sua storia personale in uno strumento di lavoro: nata in Olanda, cresciuta in Argentina e Italia, arrivata negli Stati Uniti dopo una parentesi in Francia, il suo nomadismo esistenziale e linguistico, che si manifesta nella disinvolta gestione di cinque lingue diverse, si è tradotto in una particolare disposizione all'analisi dei processi di globalizzazione, di cui ha ricostruito la genealogia in maniera lucida e rigorosa. Autrice di testi (tra cui ricordiamo Città globali -Utet, Le città globali nell'economia globale -Il Mulino, Migranti,coloni, rifugiati -Feltrinelli, Globalizzati e scontenti -Il Saggiatore), dove le ambivalenze della nuova geografia del potere vengono esaminate alla luce dei processi storici che le hanno alimentate, e l'attenzione alle trasformazioni istituzionali si coniuga con quella rivolta alle pratiche di cittadinanza e all'attivismo politico di natura informale, Saskia Sassen ha partecipato a Roma al Festival della Filosofia, dove l'abbiamo incontrata per discutere della sua opera a partire da uno dei suoi ultimi libri, Territory, Authority, Rights: From Medieval to Global Assemblages (Princeton University Press), che verrà tradotto in italiano nel 2008, mentre per il prossimo inverno è prevista l'uscita di Una sociologia della globalizzazione .È molto diffusa l'interpretazione secondo la quale lo Stato moderno sarebbe destinato a un'inesorabile declino, sconfitto da una nuova forma di potere, che spesso ci si limita a definire globale. Lei, invece, già in "Fuori controllo" (Il Saggiatore), un testo del 1996, parla di una nuova geografia del potere, all'interno della quale si modificano alcune delle caratteristiche dello stato, come la sovranità e la territorialità...In Fuori controllo ho cominciato a comprendere che le trasformazioni attuali vanno esaminate anche all'interno dello Stato, e che, al di là del fatto che lo stato cambi poco, nulla o molto, si trova a operare in una diversa geografia del potere, che a livello più semplice e immediato si riconosce nella presenza delle istituzioni come il Wto, o il Fondo monetario internazionale piuttosto che nei mercati finanziari globali o nelle grandi multinazionali, ovvero in una serie di condizioni che modificano il rapporto dello Stato col suo proprio territorio e col sistema sovranazionale. Nel mio ultimo libro approfondisco l'analisi di questa nuova geografia del potere, sostenendo che essa s'inserisce all'interno dell'apparato nazionale e che uno degli spazi strategici dove si costituisce il globale è proprio lo Stato nazionale, che considero la più complessa forma di organizzazione che abbiamo prodotto. Per spiegare le trasformazioni e i processi abbastanza impenetrabili che avvengono all'interno dello Stato ho parlato di una denazionalizzazione di quello che storicamente è stato costruito come nazionale.Questo processo di denazionalizzazione si accompagna, come lei ha sottolineato, anche a un processo di rinazionalizzazione, soprattutto nel campo politico. Ce ne vuole parlare? Si tratta della rinazionalizzazione di alcuni aspetti del politico, quegli aspetti che hanno a che fare con le politiche della membership , dell'appartenenza politica. Tuttavia, è una tendenza che si registra anche nelle misure protezioniste adottate da diversi paesi in campo economico, come è successo negli Stati Uniti per l'industria dell'acciaio e poi con i sussidi all'agricoltura. A livello politico assistiamo a una continua nazionalizzazione e rinazionalizzazione, ma, allo stesso tempo, anche a un processo di denazionalizzazione. Non dobbiamo pensare, quindi, che l'ambito economico venga denazionalizzato e quello politico rinazionalizzato, perché tanto nell'economico che nel politico avvengono entrambi i processi, e, piuttosto, ci si dovrebbe chiedere quale sia il rapporto tra la tendenza denazionalizzante e quella rinazionalizzante. C'è chi, in maniera semplicistica, risponde che i due processi non sono connessi oppure che sono semplicemente opposti, ma le cose stanno diversamente, perché ciò che spesso ci appare come un semplice ritorno al passato rappresenta invece una nuova modernità strettamente intrecciata con la globalizzazione. Lo si può vedere con i movimenti anti-immigrazione, che derivano sì da una sorta di "miseria politica", che individua nella orizzontalità del conflitto tra migranti e "nazionali" la soluzione più semplice al fenomeno migratorio, ma che rappresentano anche una nuova modernità connessa alla globalizzazione. Lo stesso accade per certe manifestazioni della religione, che possono essere facilmente interpretate come un ritorno regressivo al passato, mentre fanno parte a pieno titolo della modernità, o con le economie informali delle città globali, che sono parte di una nuova modernità del capitalismo avanzato. La rinazionalizzazione della politica dell'appartenenza ha l'odore di una dimensione vecchia e regressiva, ma è un fenomeno molto più allarmante, perchè fa parte integrante dei nuovi sistemi. A proposito di immigrazione, già dieci anni fa lei criticava l'incapacità dei governi di riconoscere il legame tra le migrazioni e i processi di transnazionalizzazione, ovvero quello che definiva come la geopolitica delle migrazioni. Le sembra che gli Stati europei da dieci anni a questa parte abbiano fatto passi in avanti in questa direzione, oppure la costruzione della Fortezza-Europa ci deve far disperare?Credo ci siano due Europe diverse sull'immigrazione: una è quella "interna", che ha dovuto riconoscere la necessità di adottare alcune politiche che consentono le migrazioni e il lavoro all'interno degli Stati europei. Si tratta, per esempio, dell'Europa della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha imposto alcune regole ai legislativi nazionali, o quella del trattato di Amsterdam, il quale, anche se non pienamente attuato, rende il migrante interno un portatore di maggiori diritti. Nell'Unione europea c'è dunque una politica più aperta nei confronti dell'immigrato, anche se spesso solo a livello formale, e in questo senso sono stati fatti alcuni passi in avanti. D'altra parte, però, c'è l'Europa "esterna", quella che, adottando la stessa politica regressiva e gli stessi mezzi usati inutilmente dagli Usa per militarizzare il confine con il Messico, costruisce una sorta di muro di Berlino sull'acqua. C'è dunque una Europa, quella della riunione di giugno a Rabat, che sembra idealmente aver capito la necessità di passare dal controllo alla governance, ma nel frattempo l'altra Europa militarizza i confini. Molti studiosi tendono a parlare della globalizzazione come di un "Wild West globale", dove i vecchi strumenti giuridici di regolazione non funzionano più e non ce ne sono ancora di nuovi. Lei invece ha sottolineato spesso come la globalizzazione abbia sollecitato la nascita di nuovi strumenti giuridici….Nella ricerca sulla mondializzazione esiste un livello di generalizzazione incredibile, che impedisce di vedere quelle nuove forme di strutture legali che definisco come "nuovi assemblaggi di diritti territoriali", e che vanno dalla Corte penale internazionale, la prima corte veramente globale, pubblica e formalizzata, a strutture molto parziali e private, come la Lex constructionis . Si tratta di una legge nata dall'unione delle più grandi compagnie di costruzioni, in base alla quale spetta ai governi dei paesi dove operano queste aziende l'onere di dimostrare che le aziende non rispettano l'ambiente. Si tratta di una specie di legge privata, ma il termine privato qui non va interpretato usando le tradizionali categorie che nello Stato nazionale distinguono la dimensione pubblica da quella privata. Quanti credono nel "Wild West globale" le potrebbero ribattere che quest'esempio conferma il rischio di un nuovo Wild West, dove chi può si crea la propria legge… Non credo sia così, innanzitutto perché queste nuove formazioni legali private, che si riferiscono ad aspetti molto parziali, a volte vengono inserite nelle leggi di carattere nazionale. Inoltre, non abbiamo a che fare con un Wild West, quanto, piuttosto, con i lineamenti di una nuova formazione, di un potenziale nuovo Stato di diritto, che legittima le richieste di alcuni ma non di tutti, che garantisce molti diritti solo a certi attori, e che in questi termini va ben al di là del neoliberismo, che costituisce solo una fase di destrutturazione di alcune architetture legali e regolatrici. Ci piace pensare che il Wto e il Fondo monetario internazionale rappresentino il nuovo ordine, mentre hanno fatto semplicemente il loro lavoro, che è quello di disarticolare le vecchie strutture. Il nuovo ordine è molto più complesso ed è solo all'inizio. La sfida nella ricerca e nell'interpretazione è proprio quella di individuare i cambiamenti anche nella loro parzialità, nel loro coesistere con elementi che ci risultano familiari, senza fermarsi all'evidenza delle cose. Per ritornare alla questione delle forme giuridiche, poi, occorre ricordare che, dal momento che lo Stato nazionale diventa uno spazio essenziale per alcuni aspetti della globalizzazione economica, questo processo può anche concedere ai cittadini, ancora confinati nella dimensione nazionale per l'esercizio dei diritti, una base all'interno del nazionale per fare politica globale. Negli Stati Uniti, per esempio, usando uno strumento legale nazionale, un'organizzazione no-profit si è rivolta a una corte con una giurisdizione nazionale per muovere un'accusa contro 9 multinazionali per abusi dei diritti umani dei lavoratori in Cina, Messico e Indonesia. In quanto cittadini, dunque, non abbiamo bisogno di aspettare lo stato globale e le leggi globali, perché già nel sistema legale dei nostri paesi possiamo trovare gli strumenti che ci permettono di fare politica globale. Può spiegarci perché ha deciso di lavorare sulla "triade" costituita da territorio, autorità e diritto? Anziché assumere il globale e il nazionale come prodotti storicamente già formati, ricorro a questi tre elementi costitutivi, che non appartengono solo alla dimensione nazionale, ma in modi diversi a tutte le formazioni complesse, per due ragioni: innanzitutto per evitare l'endogeneità e liberare lo spazio concettuale ed empirico, e in secondo luogo perché questo mi permette di analizzare il cambiamento sociale e distinguere tra questi tre elementi, conquistati storicamente attraverso lotte e conflitti, e la logica di tipo organizzativo che dà loro valore. Lo Stato di diritto, per esempio, che è un modo di assemblare questi tre elementi, funziona in un certo modo nello Stato nazionale, proteggendolo e attribuendogli per così dire una forza centripeta, mentre con la globalizzazione assume un valore diverso, perché entra in una diversa logica organizzativa. Cosa intende dire quando scrive in uno dei suoi ultimi libri, "Territory, Authority, Rights", che tenta di non cadere nella trappola della endogeneità?Mi sembra che ci siano due fattori da considerare: il primo è che tante cose che si presentano come spiegazioni della globalizzazione in realtà non spiegano nulla, perché sono delle semplici descrizioni; il secondo è la tendenza, diffusa nelle scienze sociali, a spiegare il determinato oggetto d'indagine, in questo caso la globalizzazione, nei termini delle sue caratteristiche: per spiegare il fenomeno dell'immigrazione si descrivono le caratteristiche degli immigrati, mentre per spiegare la globalizzazione si ricorre ai mercati globali e all'interdipendenza, senza rendersi conto che quando si dice che la globalizzazione ha a che fare con una maggiore interdipendenza non si spiega nulla, ma semplicemente si descrive una delle sue caretteristiche. Per evitare il pericolo di cadere in un circolo vizioso, nel quale la descrizione del fenomeno si presenta come la sua spiegazione, ricorro a elementi la cui natura globale non sia immediatamente auto-evidente.Un'ultima domanda su un campo di ricerca che l'ha resa molto nota anche in Italia, quello delle città globali. Quali sono le loro specificità? Nelle città globali ci sono due funzioni fondamentali: una funzione economica produttiva, che è la capacità dei network service actors di gestire, innovare, operare per le attività globali delle aziende e dei mercati, e una funzione politica produttiva, che si può spiegare con un esempio. Secondo Weber per i borghesi, che potremmo chiamare attori politici informali, lo spazio della città è uno spazio economicamente e politicamente produttivo, perché è il luogo dove i borghesi fanno gli accordi in quanto mercanti e dove c'è il politico, ovvero la protezione del diritto alla proprietà. Negli anni 50 e 60 Henri Lefebvre osserva le città e sostiene che la borghesia non ne ha più bisogno, perché le città, con i loro sistemi pubblici di trasporto, salute, casa, scuola, sono divenute le città dei sindacalisti, per i quali la città è lo spazio per il lavoro ma anche per il "fare politico". Oggi le città sono spazi che fanno emergere da un lato una forza politica che rappresenta l'impronta urbana nella traiettoria del capitale globalizzato, che modifica lo spazio urbano nella sua materialità e lo trasforma in politico, e dall'altro una forza politica che è un amalgama degli "svantaggiati", che è anch'essa una forza sociale e produttiva, una produzione del politico attraverso la materialità dello spazio urbano. Dove vada questa forza politica, beh, questo è un altro discorso.